TERRITORIO

Ancon Dorica Civitas Fidei

"In Piceno urbs Græca est Ancona, a Syracusanis condita, qui Dionysii fugerant tyrannidem. Sita est in promontorio, quod suo versus septentriones reflexu portum includit: vino et tritico abundat."    (STRABONIS GEOGRAPHICA)

Immagine: © Eva Kottrova

 

Sullo stemma la scritta 

"ANCON DORICA CIVITAS FIDEI" 

e il Guerriero d'oro armato di spada sul cavallo corrente.

Ancona, la città dorica, disposta ad anfiteatro su un promontorio che si eleva specchiandosi sulle acque del suo ampio porto naturale, fu fondata nel 387 avanti Cristo dai Greci di stirpe dorica provenienti da Siracusa, sfuggiti alla tirannide di Dionisio. Sulla sommità del colle a picco sul mare Adriatico sorse l'acropoli con il tempio dedicato ad Afrodite, laddove anticamente si insediò un primitivo villaggio piceno.


Sulle pendici del colle Guasco, già Cimmerio e Montemarano, nacque la nuova città di Ankòn, prendendo spunto dalla conformazione prominente a mo' di gomito del dorso della Penisola, proprio come ricorda il cinquecentesco umanista bolognese Leandro Alberti nella sua opera magna “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella”: «… che quiui si piega Italia nel mare Adriatico a simiglianza di un gŏbito... ».

 

Con l'avvento dei Romani nel Piceno, anche la Dorica nel 113 a.C. dovette arrendersi alle forze del supremo imperatore Traiano che ne ampliò il porto per dar vita ad un importante scalo commerciale sul mare con il guardo volto ad Oriente. «Quiv'era storïata l'alta gloria / del roman principato il cui valore / mosse Gregorio a la sua gran vittoria; i' dico di Traiano imperadore; ...» - scrisse Dante nel X° canto del Purgatorio, circa l'Optimus Princeps, valente statista ricco di qualità morali, sotto il cui dominio l'Impero romano raggiunse la sua massima estensione territoriale, ben 6,5 milioni di chilometri quadrati.

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Più tardi, da parte di Goti, Bizantini, Longobardi, Saraceni, Carlo Magno e Federico Barbarossa, truppe napoleoniche e sarde, con l'avvicendarsi degli eventi bellici durante la storia, gli Anconetani dovettero subire devastazioni ingenti nel difendere o nell'offendere; vicende che resero inevitabilmente il loro ego a prima vista impermeabile nascondendo però un cuore soave come lo zucchero. Il poeta anconetano  Eugenio Maceo Gioacchini, detto Ceriago, dipinse alla perfezione l'essenza più intima degli autoctoni nella sua ode vernacolare: "Io guardo 'sta cruceta sbruzulosa / cun 'st'anima gentile; cià qualcosa / del caratere nostro anconità; / rozo de fòra, duro, un po' vilà / ma drento bono, un zuchero, 'n'amore  / ché nun conta la scorza, conta el còre".

 

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